Giuliano Luzzi LA NOSTRA AFRICA memorie di una famiglia talamonese., con l'associazione laica LVIA che si affiancò ai missionari tradizionali.

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carloceruti
view post Posted on 10/12/2009, 18:46




La nostra Africa

L'inizio

Sollecitato dai miei nipoti che vogliono conoscere il motivo del perché la loro mamma, nonna e nonno un bel giorno hanno deciso di partire per l’Africa, con un organismo di volontariato internazionale, ho pensato di scrivervi qualche ricordo. Per fare capire i motivi e spiegare tale decisione dovrò frugare nella memoria e... partire da lontano.
Una sera la nonna mi ha mostrato un articolo su “Famiglia Cristiana” che parlava di una coppia di Torino che era appena tornata dall’Africa dopo 2 anni di volontariato. Raccontavano la loro esperienza: guarda caso anche loro avevano un’officina di riparazioni come avevamo noi, l’ avevano chiusa e via per la grande avventura. Il mattino dopo la nonna mi disse se avevo letto l’artico e da lì partì il grande consiglio di famiglia: la vostra mamma, che allora aveva 11 anni, a sentire parlare di Africa si è subito gasata , si vedeva già in mezzo alla foresta , contornata di animali di ogni genere a sostituire Tarzan (aveva appena visto un film). Nella prima votazione del grande raduno decisionale di famiglia c’era già un voto favorevole mentre i grandi cercavano di ragionare sul grande passo. Abbiamo poi capito solo in seguito che il seme era già stato piantato senza che nessuno se ne fosse accorto. Vi racconto cosa ha fatto prendere a me la decisione: una sera che ero solo in casa un programma televisivo trasmetteva un documentario sulle povertà nel mondo, preso dallo sconforto mi sono chiesto ed ho chiesto a Dio (anche se non ero un grande praticante) cosa avrei potuto fare per alleviare un po’ queste brutture, mi sentivo un po’ in colpa, perché il nostro vivere nell’agiatezza senza lasciarsi mancare niente, sapendo della povertà nel mondo cominciava a darmi un po’ fastidio, poi il discorso finì li; il tempo passava, finché un giorno Famiglia Cristiana, con il suo articolo, ci ha fatto lo sgambetto. I ragionamenti sono stati questi: abbiamo terminato di pagare i debiti, la casa ce l’abbiamo, i pargoli sono tutti qui presenti. Abbiamo pensato anche che se lo zio Carlo aveva donato tutta la vita per la giusta causa, noi potevamo mettere a disposizione un pochino del nostro tempo per lo stesso scopo, se si è convinti di una cosa basta poco per decidere. Ricordate quella scritta incisa nel legno appeso alla baita di Olza che dice: impegnati a vivere con passione, nulla di grande si fa senza di essa: deciderete voi, ma può essere da spunto per il vostro avvenire, specialmente se si fa per il bene comune. Questi argomenti collegati ad un pizzico di avventura ci ha spinti ad incominciare ad informarci e alla fine altri 2 voti si sono aggiunti a quello della vostra mamma e quindi abbiamo raggiunto l’unanimità. L’indirizzo sulla rivista ci ha portato a Cuneo. Il presidente fondatore don Aldo Benevelli ci accolse con grande apertura , ma anche un po’ perplesso, vedendo una famiglia con queste intenzioni. Una volta ascoltata la nostra storia sotto sotto ci ha fatto capire se eravamo coscienti del passo che stavamo per intraprendere. Avuta conferma, ci propose di iniziare la preparazione: durante i corsi abbiamo capito la serietà con cui questo organismo di volontariato internazionale si accingeva alla selezione dei partecipanti mettendo davanti tutte le difficoltà che si possono trovare a lavorare con persone con mentalità così diverse, in ambienti anche ostili e al vivere in comunità. Dopo questo vaglio siamo passati alla lingua.

La Francia

Terminato l’apprendi-africa passato per la maggiore parte del tempo a san Pietro del gallo, un paesino vicino a Cuneo, in un fuaiè gestito da suore abbiamo imparato a confrontarci con altri e vivere in comunità, poi via per la Francia a Lione per imparare la lingua. La vostra mamma ha potuto frequentare una scuola statale così da apprendere bene il francese, io e la nonna in una scuola per stranieri, in una aula eravamo di 6 nazionalità (molto interessante). Tra i tre studenti il più asino ero io, però scopiazzando la vostra mamma e la nonna qualche cosa ho appreso (a pensare che dopo anni ho dovuto studiare il portoghese e poi l’ inglese ). Vi elenco i paesi africani in cui abbiamo lavorato come volontari: Senegal, Burkina Faso, Etiopia, Zaire, Mali, Uganda e altri ma per brevi periodi. A Lione la vostra mamma aveva parecchi amici tra questi c’era un ragazzo libanese, Camal che, portava nel corpo i segni di torture e aveva raggiunto l’Europa fuggendo per il deserto. Per lei è stata l’ iniziazione per capire che nel mondo ci sono tante ingiustizie, è stato lo sprone a fare di più. I padri bianchi a Sant Fois les Lions, bel poggio sopra la città, ci introducevano piano piano nell’ambiente africano. Ci avevano messo a disposizione una casetta nel loro compaund con noi viveva un’ altra famiglia italiana che si preparava per lo stesso scopo. Per me abituato a lavorare 12 ore al giorno, dovermi sedere per dei periodi così lunghi ad ascoltare facevo una fatica boia ad abituarmi, anche perché di scuola ne avevo fatto poca ai tempi degli studi (5 elementare) anche se la vita è una scuola continua. Dopo un anno di attesa finalmente la partenza per il Senegal. L’impatto è stato abbastanza traumatico. Tra il sentito dire e vivere le cose c’è una bella differenza, anche se abbiamo trovato un gruppo di persone molto accoglienti, siamo arrivati a Thiès in piena notte dopo avere passato il setaccio della dogana, tanti amici ci avevano dato formaggio, salame e tante cose buone da mangiare, i doganieri per avere la mancia ce la volevano sequestrare. Passata una trappola durante il percorso Dakar- Thies un posto di blocco della polizia ci ha fatto la stessa storia… altre discussioni e la solita mancia. Il mattino seguente, dopo avere fatto conoscenza dei presenti e terminati i saluti, via ognuno per il proprio lavoro, io con un volontario nei villaggi per conoscere la gente e capire i lavori che avrei dovuto eseguire; i primi tempi erano di apprendimento poi ci si buttava ogni uno per il proprio compito; avevamo anche un’ officina dove fabbricavamo le eoleane, tralicci di ferro alti 16 metri con sopra un ventolone che girando a forza del vento muoveva una manovella per estrarre l’acqua dai pozzi così da alleviare la fatica alle donne. I primi tempi non credevano ai loro occhi, aprire un rubinetto prendere l’acqua… un sogno proibito. Solo che la possibilità finanziaria non era illimitata, ci sembrava di fare tanto, ma i bisogni sono immensi e alla fine era ben poco, il metodo per scegliere i villaggi per i nostri interventi per non privilegiare gli uni o gli altri, consisteva nel valutare gli impegni che si prendevano: il villaggio doveva formare un comitato di gestione, noi consigliavamo anche tramite un amichevole contratto scritto di inserire almeno tre donne su un totale di 7 persone. Preparare i materiali che potevano preparare loro, raccogliere i soldi per le spese, valutando le possibilità di ogni villaggio, certamente il contributo era ben poco a confronto del costo totale dell’opera, ma ognuno doveva fare il massimo. Un altro criterio era la distanza dai villaggi che già avevano acqua: La vostra mamma andava a scuola a Thiès, in una scuola statale, così ha potuto proseguire lo studio del francese. Fuori dalle aule i ragazzi parlavano la loro lingua madre il “wolof”, anche lei ne ha appreso un po’ in poco tempo. C’è voluto poco ad inserirsi mentre il nonno faticava più (era più duro di cervice). La gente ci ha voluto subito bene. La nostra comunità aveva delle regole abbastanza rigide, non si poteva usare la macchina dopo il lavoro, si mangiava quasi sempre alla senegalese (per spendere meno), al mare, che distava 70 Km, si andava ogni 15 giorni e dovevamo pagare la benzina con i nostri soldi, non si poteva bere alcolici perché vivevamo in mezzo alla povertà. Queste cose venivano decise a maggioranza, le riunioni ci prendevano serate intere perché non tutti erano d’accordo, ma in democrazia vince la maggioranza. Noi adulti prendevamo dai conti “l’argent de poche” la paghetta mensile di 15, poi18, mila lire per le spese personali. Un fine mese dopo aver fatto i conti della contabilità, confrontati con mesi precedenti, risultava che si erano spesi 2000 lire in più del solito e quindi abbiamo fatto una riunione per capire come erano stati spesi. Si era comprato una scatola di formaggini francesi ( la “vache qui rit” che vuol dire la mucca che ride) per le bambine, così si erano sforati i conti. Con l’aiuto di padre Bruker (un francesone che è stato poi capo stampa vaticana a Strasburgo, nella sede europea) abbiamo capito che se in Africa non si mangia bene non si può stare bene, un proverbio dice: mangia o l’Africa ti mangia. Non pensiate che le comunità di volontariato siano tutte così, sta ai membri che ci vivono gestirsi al meglio, si tende alla sobrietà specialmente quando si è circondati da poveri. A valutare queste cose dall’esterno eravamo abbastanza esagerati, ma noi abbiamo trovato queste regole e non abbiamo voluto rompere l’equilibrio che si era instaurato anche perché noi saremmo poi andati in Alto Volta a breve, quando la situazione politica ce lo avrebbe permesso. Dieci giorni dopo l’arrivo abbiamo avuto la notizia della morte della mia mamma, la nonna Carolina, è stata dura anche perché non abbiamo potuto partecipare al funerale, ma padre Bruker ci ha consolato con le giuste parole e con messe solenni per accompagnarla in Paradiso.

La paura del grande tondo

Per obbligarvi a leggere tutto ho dovuto fare un titolo un po’ ambiguo (cosa mai vorrà dire) In Senegal, appena inseriti nella comunità, il primo problema per la vostra mamma era potere proseguire la scuola, le autorità della città di Thiès l’anno accettata subito, l’unica bianca fra 2000 scolari. In una settimana aveva già fatto amicizie, tanti venivano a casa a farci visita per conoscere noi genitori, eravamo contenti perché lei si sentiva a proprio agio e la gente le voleva molto bene e questo agevolava anche il nostro lavoro. Nel periodo delle vacanze scolastiche molte volte veniva con me e la squadra di operai a fare dei lavori nei villaggi, se erano lontani ci fermavamo a mangiare da loro, 4 persone per ogni catinone, di solito data la vicinanza al mare, riso con del pesce. La prima volta un incaricato ci insegnava a fare la palla di riso e pesce con le mani, e per onorarci come ospiti il capo villaggio ci teneva il mucchio di riso e pesce alimentato, cioè prendeva i più bei pezzi di pesce che erano in mezzo al riso e li metteva nel nostro angolo del catino. I più avvantaggiati erano quelli che avevano le mani più grandi. Per far ridere i nostri ragazzi facevamo la misura delle mani e chi le aveva più grandi non lo si voleva come compagno di “catino”. La vostra mamma era già abituata a lavorare in officina qui in Italia, quando non era impegnata nello studio mi aiutava a smontare motori e parti meccaniche e a sette anni guidava già le macchine. Gli amici senegalesi non erano abituati a vedere donne a fare lavori di meccanica, figurarsi una ragazza! Radio “brousse” (che vuol dire trasmettere le notizie a voce da una persona all’altra sino a raggiungere distanze notevoli) riuscì a trasmettere questa notizia nel giro di pochi giorni, passando da un villaggio all’altro noi ci meravigliamo… l’Africa dona molte sorprese. I lavori primari nei villaggi consistevano nello scavare pozzi e installare pompe per estrarre l’acqua. Venivano utilizzati tanti tubi di ferro che dovevano venire controllati all’interno ad uno ad uno prima di essere montati, per vedere se erano tappati. Questo perché c’erano delle mosche, chiamate “mouche maçon” (mosca muratore) che in poco tempo riempivano tutti i buchi che riuscivano a trovare con dell’argilla impastata con la loro saliva. I tubi dell’acqua erano il loro giaciglio preferito. L’operazione “ispeziona tubo” ha fregato la vostra mamma, che, una volta, si è avvicinata troppo al bordo del tubo facendosi un taglio profondo in un occhio e a tondo sulla guancia. Per fortuna senza danneggiare le parti vitali. I ragazzi, quando raccontavano l’accaduto, dicevano: “E’ un taglio tondo, grande grande”. E’ da lì il titolo il grande tondo. Per i nonni è stato l’inizio di tanti spaventi.

L’arrivo in Alto Volta.

Era l’anti-vigilia di Natale, l’impatto con la terra degli uomini integri è stato un po’ travagliato, all’uscita dell’aeroporto abbiamo trovato la via sbarrata da militari armati sino ai denti. Abbiamo poi capito che aspettavano un capo di stato e che il nuovo presidente era venuto all’aeroporto ad accoglierlo, slogan e pugni alzati accompagnavano il corteo. Infatti il governo, capeggiato da Thomas Sankara, era al potere da pochi giorni dopo aver fatto un colpo di stato. Noi eravamo d’accordo che i volontari già sul posto sarebbero venuti a prenderci, ma con tutto quel trambusto all’uscita non abbiamo trovato nessuno. Così abbiamo iniziato a contrattare con un taxista il prezzo del trasporto, ma proprio mentre stavamo caricando i bagagli, abbiamo visto dei bianchi che arrivavano con una macchina con la scritta l.v.i.a volontari italiani. Ci si è allargato il cuore anche perché non avevamo l’indirizzo completo di destinazione. Fatto conoscenza, seguita da abbracci e benvenuti vari siamo partiti verso la “brousse”, dove c’era la nostra comunità. Prima di lasciare la città di Ouagadougou i nostri nuovi amici ci hanno portato, come da prassi, a salutare il nostro capo supremo il cardinale Zoungranà, infatti la maggiore parte dei nostri progetti erano legati alle diocesi locali. Giunti a tarda notte nelle abitazioni la luce delle lanterne non ci ha mostrato il panorama; l’unico desiderio era poter riposare. L’impatto della vigilia di Natale del 1983 è stato abbastanza traumatico, perché il mattino uscendo dalla stanza abbiamo visto un cortile con qualche pianta di mango e papaia e, data la stagione secca, appena l’occhio si allontanava solo sabbia. Le case erano molto semplici, ma dopo aver visionato i dintorni si distinguevano dalle capanne del villaggio (Donsè), perché le nostre erano fatte di mattoni e cemento. Quello che ha colpito maggiormente le nostre donne è stato il disordine che c’era in cucina e nella mensa: galline che becchettavano nel deposito dei viveri tra le patate e la pasta; feci sparse dappertutto. E pensare che appena il giorno prima eravamo in Senegal dove eravamo inseriti in una comunità sobria ma molto ben organizzata; sta tutto a chi abita la responsabilità. Dopo i primi saluti alla gente del posto le donne si sono date da fare per la grande pulizia, io sono stato ingaggiato dal prete per preparare la messa di Natale. Voleva fare qualcosa di speciale per quella di mezzanotte, così ho fatto un impianto di luci per illuminare la chiesa con un piccolo generatore. Da lì i primi contatti e grandi amicizie. Il giorno di Natale ce lo ricorderemo: c’era la gioia dell’evento, ma l’impatto che ho descritto prima aveva lasciato il segno. I volontari che vivevano lì erano andati altrove, così soli abbiamo festeggiato l’evento (qualcuno con le lacrime agli occhi). I primi giorni sono passati più che altro per capire e definire un piano di lavoro: la nonna prese la responsabilità del dispensario, che era a pochi passi da casa, dove ci lavoravano tre infermieri e una suora del posto; c’era un via vai di duecento persone circa al giorno. Nei dintorni c’erano anche delle capanne per il ricovero dei malati gravi e dei familiari che li seguivano, attorno degli orti con ortaggi vari, in cui le mamme dei bambini, sotto la nostra guida, coltivavano verdure per nutrire meglio i propri figli, dei quali la maggior parte era mal nutrita per la mancanza di proteine. Noi davamo ai più bisognosi un aiuto, olio e farina per integrare la dieta. La vostra mamma, dopo aver chiesto il permesso al cardinale, ha potuto proseguire gli studi nella scuola dei catechisti vicino a casa. Erano tutti adulti così lei era la loro mascotte. Il tempo libero lo passava con la nonna al dispensario, a curare e giocare con i bambini, o almeno con quelli che avevano la forza di alzare le braccia; un giorno mentre tornavo da un villaggio, mi sono fermato alla mensa dove ho visto la vostra mamma con in braccio un bambino. Dalla faccia mi sembrava già grandicello (la suora e la nonna mi dissero in seguito che lo avevano portato morente, era mal nutrito e sembrava irrecuperabile), aveva già l’età della vostra mamma, che lo aveva preso a cuore e lo aveva nutrito come un uccellino. Dopo una ventina di giorni ha cominciato a riprendersi, fino a che, dopo molto tempo, ha potuto tornare al proprio villaggio (cari nipoti, la vostra mamma ci ha dato una bella lezione! Il voler bene può portare dalla morte alla vita!).
Io, dopo aver visionato le richieste dei villaggi, sentito i bisogni, ho cominciato a prendere i primi contatti con la popolazione; ho incominciato ad avviare il programma per cui ero stato andato, che consisteva nell’aiutare la gente a migliorare la propria vita, ovvero avere l’acqua pulita, coltivare meglio per produrre di più, allevare meglio il bestiame, l’igiene e la salute delle persone in generale.
Era chiamato “Progetto integrato”. Eravamo più volontari, ognuno nel ramo della propria specializzazione. Il nostro approccio con le popolazioni non era quasi mai caritatevole, salvo le emergenze: la gente doveva contribuire con quel che poteva al lavoro, alla raccolta di soldi e creare comitati, per poter poi gestire il tutto autonomamente. Per ogni villaggio in cui facevamo i lavori, venivano preparati i giovani, con dei corsi di apprendimento alla fine dei quali c’era la consegna del diploma e dell’attrezzatura adatta a gestire e fare la manutenzione alle opere fatte. Il villaggio si riuniva in grande festa e gli scolari con in mano il pezzo di carta erano orgogliosi di aver raggiunto l’agognato traguardo. In Africa ci vuole poco per avere tanta felicità. A voi nipoti penso, però, che interessino di più le storie sulla vostra mamma. Ve ne elenco qualch’una. Dato che era una ragazza attiva con tanta voglia di fare, era sempre in movimento. Qualche volta, la Carlina, che faceva animazione nei villaggi, le chiedeva se la accompagnava (la Carlina era una brava ragazza ma un po’ fifona). C’è un fatto che lo testimonia e che ci ha fatto ridere tanto. Il giorno del nostro arrivo all’aeroporto, era lei che doveva venirci a prendere, ma ad Uagà ha sbagliato strada ed è entrata in una via presidiata dai militari. L’hanno fermata e un soldato le ha puntato il mitra allo stomaco. Dallo spavento si è rifugiata nel convento delle suore Camilliane, che abitavano lì vicino, perché aveva preso il “cagato” (g“ho ciapato el cagato!”, i veronesi dicono così), dimenticandosi dei pellegrini in arrivo del Senegal (a proposito è lì da quelle suore che la vostra mamma studiava, con i crismi di una scuola statale, che è poi stata tenuta buona anche in Italia; viveva con le novizie, possiamo dire che è anche un po’ suora). Quando andavano nei villaggi, la Carlina faceva guidare la Babì (Citroen a due cavalli) alla vostra mamma. Era l’unica macchina del circondario, ma l’età non era ancora adatta (il nonno sapeva sempre le cose molto dopo). Nel cortile di casa c’erano sempre dei bambini, tra i quali molti storpi. Loràn era il più furbo: camminava con le mani e le gambe, per non trascinarle, le metteva in spalla. Se riusciva ad attaccarsi a qualche ramo di un albero si arrampicava come una scimmia. Aveva una forza nelle braccia che faceva impressione. Sotto la pressione della vostra mamma gli abbiamo comprato una carrozzella, con l’aiuto dei talamonesi. I nostri progetti erano finanziati specialmente dalle donazioni di privati, che colgo l’occasione di ringraziare ancora, anche se a distanza di tempo. Ora incomincia un’altra storia, quella del cieco che ogni tanto passava a salutare, perché sapeva di ricevere qualche cosa. Voleva bene alla vostra mamma e tutte le volte voleva salutarla personalmente, aspettando delle ore se non era presente. La chiama Libì. Un giorno andammo ad Uagà, al mercato. Vi dico solo che in pochi metri erano ammucchiate centinaia di persone, chi vendeva, chi comprava, chi gridava chi si salutava. È difficile descrivere senza vedere questo caos, nel mezzo del quale abbiamo sentito gridare: “Libì, Libì”. Era il nostro amico cieco che, tra tutto quel trambusto, aveva sentito la voce della vostra mamma. Sono poi seguiti baci e abbracci. Il nostro vecchio amico, che pensavamo fosse scomparso, era lì con il suo bastone di ferro, che faceva valere le sue ragioni. L’attività sportiva della vostra mamma era abbastanza intensa. I ragazzi della sua età la volevano come terzino nella squadra di calcio della parrocchia. Organizzavamo anche corse, dai cento metri ai cinque chilometri: era sempre tra i primi. Non pensiate che giocava sempre, aveva anche le sue attività di comunità, tenendo la contabilità, vendendo i francobolli e raccogliendo i soldi del dispensario. I malati, che potevano, dovevano, infatti, pagare una piccola quota. La mamma segnava così la somma sul libro della contabilità. Compilava inoltre la lista dei malati, il tipo di malattie, l’età e la gravità. Ogni mese dovevamo inviarla al Ministero della sanità nella capitale. Ad ogni precipitazione doveva segnare la quantità di pioggia per poi inviarlo periodicamente al Ministero dell’acqua, così come la velocità del vento. Era un servizio che facevamo per il governo. Per capire l’aria della politica, ad ogni foglio ufficiale bisognava scrivere “La patria o la morte. Noi vinceremo”, ovviamente in francese. Vivevamo in mezzo alle malattie. Durante l’anno c’erano i cicli delle epidemie: la stagione delle piogge, che durava circa tre mesi, portava la malaria (i più deboli morivano), poi seguiva il tifo e la meningite. La vostra mamma, durante il periodo di quest’ultima malattia, si è ammalata e sembrava che manifestasse i sintomi di questa malattia appunto. Per avere la prova, dovevamo estrarle del liquido dal midollo spinale. Dopo aver tergiversato un po’, non essendoci altre soluzioni, abbiamo incaricato un infermiere che lo faceva anche su altri ammalati. Durante l’operazione questo omone, grande e grosso, vedendo la pelle bianca della schiena della vostra mamma, si è spaventato e non è più riuscito a continuare l’operazione. L’ago ballonzolava, perché era già inserito nella pelle. La suora che prima aveva detto che non se la sentiva di fare questo lavoro, prese coraggio e proseguì, estrasse il liquido che subito analizzato diede esito negativo. Abbiamo passato dei brutti momenti, anche perché è un’operazione molto pericolosa: se si toccano degli organi vitali, si può restare paralizzati a vita, purtroppo era già successo. A dieci km viveva un missionario della Corsica (padre Ranzini). Era un grande antropologo, conosceva la cultura del Burkina più che la gente stessa del posto. Insegnava la lingua ai missionari e ai volontari. La domenica era l’invitato d’onore alla nostra mensa; ci ha aiutato tanto a capire la psicologia e le abitudini della gente. Aveva una chiesetta, dove il Santissimo era appeso a tre lance incrociate. Un giorno è arrivato a casa nostra tutto trafelato, rosso in faccia: era passato in un posto di blocco (ad ogni entrata di città, infatti, c’era un posto di blocco militare). Dato che era molto conosciuto e di lì passava tante volte, se la sbarra era alzata, proseguiva senza fermarsi. Quel giorno lì, il militare di guardia che non lo conosceva, vedendo la macchina proseguire, imbracciò il mitra e tirò una sventagliata, per fortuna senza colpirlo, verso la macchina del padre Ranzini. Girata la macchina tornò al posto di blocco arrabbiatissimo. Quando gli altri militari lo riconobbero, cominciarono a chiedergli scusa poiché il militare che aveva sparato era nuovo del posto e non lo conosceva. Dopo la sfuriata si è sentito dire dallo sparatore, che si sentiva in colpa, se poteva pagargli le pallottole, perché se avesse detto che aveva sparato al padre Ranzini, i suoi superiori le avrebbero fatte pagare a lui. A proposito dei posti di blocco, dalle nove di sera sino alle sei del mattino, dato il coprifuoco, non si poteva circolare. Delle volte, alla sera, al dispensario arrivava qualche ferito grave. Se gli infermieri e l’autista erano già tornati a casa, toccava alla nonna e alla suora intervenire. Una sera era arrivato un signore con un lungo taglio nella pancia. Dato che gli uscivano le budella, la vostra mamma è venuta a casa a chiamarmi, perché avevano bisogno aiuto per far rientrare gli intestini al loro posto. Non essendoci luce, la vostra mamma è andata in camera a prendere la pila. Sulla porta ha incrociato un ladro, ma la fretta per l’operazione “budella al vento”, non ci ha dato il tempo per constatare la quantità del furto. Il giorno dopo, alla luce del sole, abbiamo potuto fare il bilancio della refurtiva. Torniamo però all’operazione. Dopo aver fasciato il ferito e visto la gravità, si è deciso di portarlo all’ospedale della capitale: era l’unico modo per salvarlo. Guardando l’orario era possibile passare il posto di blocco per l’andata, ma non per il ritorno. Così tutte le volte che capitava un’urgenza di sera, chi portava l’ammalato all’ospedale si faceva la notte sdraiato sul furgone, aspettando l’alba. Di nome era ospedale, ma assomigliava di più ad un lazzaretto, come nel libro “I promessi sposi”. Il dottore visitava l’ammalato, poi faceva la lista delle medicine che bisognava comprare nelle farmacie esterne. Chi non aveva qualch’uno che poteva comprarle, moriva lì nei corridoi dell’ospedale. Le camere erano utilizzate per i macchinari e le visite. Da qui si può capire la grande voglia che hanno i giovani di fuggire. Un mattino la vostra mamma si è svegliata con gli occhi che sembravano pitturati di giallo: aveva preso l’epatite. Passato un po’ di tempo, senza alcun miglioramento, sotto consiglio medico, ha dovuto tornare in Italia. Dopo aver deciso con lei, che sapeva la situazione, che c’era nei nostri villaggi, abbiamo deciso che io e la nonna saremmo restati lì, mentre lei avrebbe vissuto con gli zii Savino e Ivana e il cugino Cristiano per un po’ di tempo. Così è finita la carriera di missionaria laica della vostra mamma. Per farvi capire meglio la situazione della maggior parte dell’Africa, quando lo zio Carlo, dal ritorno dalla Thailandia, è venuto a farci visita, tornato in Italia, alla gente che voleva dargli i soldi per la sua missione suggeriva alla gente di mandarli a noi in Africa, perché i suoi poveri erano come i nostri ricchi.

Il gallo bianco

Cari nipoti, se fosse andato in porto il grande affare che un nostro amico, principe dei Peul, etnia di pastori nomadi che vivono tra il Niger, Burkina, Mali e paesi limitrofi, propose ai vostri nonni un giorno .........
Farunghè Camalì venne a trovarci a casa nostra. Come al solito ci mettevamo sotto la payottte (capanna di legno e paglia aperta sui fianchi), era il posto più fresco dei caseggiati anche se in pieno giorno il termometro segnava 42/43 gradi all’ombra. Questo buon uomo che ci forniva il latte delle sue mucche che la vostra mamma andava alla sua dimora a prendere. Quel giorno arrivò vestito di tutto punto, con un bellissimo gallo dal colore bianchissimo. Lo appoggiò su un muretto, ma essendo legato non poteva muovere le gambe e rimaneva immobile. Dal rosso della cresta che portava come un’alabarda e dagli occhi fiammeggianti si capiva che era un esemplare magnifico. Dopo i vari saluti di rito il capo etnia Farunghè si sedette su una sedia di paglia e venne subito servito dalla vostra nonna con una “calebasse” (contenitore fatto da metà zucca seccata) piena di dolò (birra di miglio tipica del luogo). Mentre ci passavamo la ciotola facendoci tanti complimenti ho notato che il principe Farunghè aveva qualche cosa da dire di importante. E’ usanza in Africa introdurre un discorso partendo da lontano, ma quel mattino c’era qualche cosa di più del normale; poi arrivò al gallo, ci disse che era un dono per la vostra mamma, che era diventata una bella donna che era ora che formasse una famiglia. Il gallo era il segno di una richiesta formale, prima del grande contratto tra le famiglie. Noi sapevamo la storia del gallo che, a seconda della bianchezza delle piume, dava più valore alla richiesta. Alcuni si indebitavano per comprare il gallo bianco per fare colpo sulla futura sposa. Quello della vostra mamma non aveva rivali in tutta la zona. Io e la nonna ci siamo guardati negli occhi un poco sorpresi ma anche ammirati dagli elogi di questo buon uomo verso la vostra mamma, poi siamo partiti alla difensiva, che era ancora molto giovane e che da noi si usava ancora lasciare le decisioni alle ragazze. Il principe Farunghè si dilungò sulla bella vita che la vostra mamma avrebbe potuto fare, da un pascolo all’altro in mezzo alla savana in groppa ad un dromedario (ci disse anche che sarebbe stato il più bello e ben bardato), una delle sue figlie le avrebbe fatto da donna di servizio, sarebbe diventata la principessa del etnia Peul. La vostra mamma non era presente perché studiava dalle suore camilliane a Ouagadougou, era in classe con le novizie che volevano diventare suore e tornava solo il sabato. Il principe Farunghè dopo avermi aiutato a svuotare per la 3 volta la calebasse prese commiato con tanti salamelecchi e sorrisi, ci promise che sarebbe tornato con la sua delegazione di saggi e consiglieri. Il sabato sera era dedicato alle riunioni e alle decisioni da prendere per la settimana a venire, avevamo sempre la presenza di qualche missionario o prete locale, così si passava dall’allegria, come tirare in giro la vostra mamma chiamandola principessa dei Peul, chiederle se ci avrebbe accolto nella sua tribù come pastori specializzati ecc., a cose molto più serie, come relazionarci dei lavori fatti e da fare scambiandoci idee e opinioni. Ogni volontario aveva il suo campo di lavoro, ci vedevamo al mattino presto e alla sera tardi. Il principe tornò ancora 2 volte con la lista della dote 20 cammelli, 20 asinelli, 100 capre, ma non avendo avuto risposte positive la seconda volta raddoppiò la quota, ci è voluta tanta diplomazia per non urtare i suoi sentimenti.
Ora avrete capito il perché delle parole che ho scritto all’inizio, potevate essere dei bei ragazzi africani un po’ cioccolatini, potevate scorazzare per il deserto del Sael a contendervi i pascoli con i tuareg. I vostri nonni non avevano bisogno di raccomandazioni, come genitori della principessa, e con tutti quei cammelli asinelli e capre da gestire per conto della vostra mamma, si vedevano già in mezzo alla savana del Sael, impegnati ad organizzare i pascoli e gli spostamenti al seguito delle piogge, Infatti 3 giorni dopo la pioggia, il deserto si trasforma in un prato verde, così le mandrie seguono il percorso delle piogge, e con loro la tribù degli umani; se un anno (come capita spesso) piove meno della media in quelle zone ci saranno carestie con tutto quel che segue. L’amore viscerale per la natura che hanno questi popoli si deduce anche da questi fatti, amarla per non essere traditi. La LVIA associazione internazionale volontari laici) ha come motto sui depliant la scritta l’ acqua è vita. Noi viviamo dove non sentiamo questo problema, per ora, ma tra qualche anno sarà uno dei grossi problema mondiali; incominciamo già da ora a rispettare di più la natura e a tenerci informati.

La visita dello zio Carlo

Quando lo zio Carlo ci ha dato conferma che al ritorno dalla Thailandia si sarebbe fermato in Alto Volta a farci visita, l’euforia è entrata in comunità. Noi per la grande voglia di rivederlo, gli altri volontari per conoscerlo. Le rare visite di qualche parente che avevamo ci davano il modo di uscire dalla solita routine, e se si poteva, si faceva anche qualche giro turistico per accompagnare i visitatori alla scoperta del paese. Con lo zio Carlo siamo andati a visitare il sud dell’Alto Volta, il capoluogo di questa regione (che confina con la Costa d’Avorio) si chiama Bobo Diulasso. La sera dopo aver girovagato nei dintorni dimoravamo presso il Centro di Accoglienza Missionaria, C.A.M., purtroppo però il soggiorno durò poco. La nonna infatti ha preso un attacco di malaria molto forte e spesso perdeva i sensi. Abbiamo dovuto portarla di corsa alla capitale, sdraiata sul cassone del “pickup”. Quattrocento chilometri di strada difficile da descrivere, diciamo un buco continuo: un altro spavento! In pochi giorni i padri camilliani di Ouagadougou l’hanno rimessa a nuovo. Padre Salvatore, oltre ad essere il nostro padre spirituale era un grande dottore tuttofare che gestiva con altri confratelli e suore l’unica clinica, che si poteva chiamare tale, di tutta la nazione, purtroppo, guardando i bisogni, in pochi potevano servirsene. Per noi era un punto importante che ci dava tranquillità in caso di emergenza: benedetti questi missionari.
La maggior parte delle città africane, soprattutto nella periferia, non sono munite di fogne coperte. Ci sono dei canali a fianco delle strade che fanno da fogna… immaginatevi l’odore. Quando piove qualcosa viene portato via, c’è di buono che nella stagione asciutta (che in Alto Volta dura 9 mesi) il gran caldo secco uccide molti microbi, non tutto il male viene per nuocere. Un giorno, mentre passeggiavamo per la città, lo zio Carlo è caduto in uno di questi canali, rompendosi l’unghia del dito alluce, gli è rimasto un ricordo dell’Africa, anche se un po’ doloroso. Noterete dagli scritti che da Alto Volta passerò a chiamare il paese dove siamo stati Burkina Faso. Il primo era il nome dato dai colonialisti francesi, mentre il secondo è stato dato dal governo salito al potere dopo in colpo di stato. Burkina Faso vuol dire terra degli uomini integri, per capire la traduzione sono passati mesi perché alcuni dicevano terra degli uomini onesti, altri lavoratori e altri ancora liberi, ogni etnia sosteneva la propria traduzione. Vi racconterò ancora del Burkina Faso, perché sono stati anni veramente interessanti e la vostra mamma ha passato il periodo più lungo della “sua Africa”. Siamo arrivati in questo paese pochi giorni dopo che i militari di Thomas Sankara hanno preso il potere, senza spargimento di sangue, che prima era presieduto da persone legate al colonialismo francese. Questi giovani militari patrioti che sognavano il riscatto dal passato dal tempo in cui l’Europa con i suoi ideali di democrazia ha schiavizzato la meglio gioventù di quasi tutta l’Africa con lo sradicamento di milioni di giovani verso le americhe e paesi abitati dai bianchi, la maggiore forza lavoro trattata come animali, per fare progredire il progresso dell’uomo sapiens. Quando le coscienze di questi sfruttatori si sono ravvedute, proibito lo schiavismo hanno pensato bene di andare in Africa e altrove ad insegnare cos’era il progresso, così è nato il colonialismo un sistema molto più democratico: ti sfrutto, ti rubo le tue risorse, ma vengo io a casa tua così non ti devi spostare per lavorare per me gratis; ma che bei principi e dire che questi nostri antenati dicevano di essere il baluardo del cristianesimo, vi sembra che abbiano avuto qualche assonanza con il vangelo? Anche oggi ci sono dei fatti che ci richiamano a questi paragoni. Ritorno ai giovani capitani che hanno preso il potere in Burkina Faso; perché vi ho detto che è stato molto positivo il nostro vissuto in questo paese, abbiamo trovato delle persone meravigliose con una grande voglia di migliorare il proprio paese e la propria vita. I primi passi di questo governo sono stati quello di vendere le Mercedes e le macchine di lusso, i politici circolavano in bicicletta, nei lunghi spostamenti usavano Renault 5, si pensava alla solita demagogia dei politici, non e stato così: Thomas Sankarà il presidente dava l’esempio, da lì è partito il programma scuola per tutti, molti maestri abituati a vivere nelle città e anche bene pagati, hanno dovuto tirare su il sederone e andare nei villaggi ad insegnare: in 4 anni si è passati dal 28 % all’ 80 % . La stessa cosa è stata fatta per la sanità: quasi tutti i villaggi hanno costruito una casetta con una piccola farmacia ed un infermiere che poteva seguire le cure primarie e le vaccinazioni, in poco tempo si è notato una forte diminuzione di morti infantili. Noi nella sanità avevamo preso l’incarico di portare avanti il programma del governo della nostra provincia Oubritengà, un nostro volontario e grande amico della vostra mamma il genovese Gigi Pietra medico ed esperto in malattie tropicali coordinava il personale locale. Noi aiutavamo il governo perchè era poverissimo di risorse materiali, ma ricchissimo di risorse umane, voglioso di migliorare. La banca mondiale e il fondo monetario internazionale non finanziavano i progetti perché il governo non faceva quello che volevano loro: questi enti internazionali guidati dai paesi ricchi o fai quello che dicono loro o niente aiuti: altro tipo di colonialismo. Infatti a uno che vive sul posto ed è senza acqua, se tu gli regali una bicicletta, può anche dirti che non gli serve in quel momento perché lui ha bisogno d’acqua. Queste teste pensanti, che hanno la supremazia sul mondo, sono chiuse nel loro ignorante sapere, a volte voluto, per tenere sotto scacco le popolazioni povere, per poterle manipolare a proprio vantaggio. Ora passiamo ai contadini e agli allevatori che sono l’80 % della popolazione. La carenza d’acqua è il problema che assilla di più questo popolo. Il periodo delle piogge concentrato in 3 mesi fa cadere circa 1000 mm l’anno (più o meno come in Italia) poi più una nuvola; un modo per immagazzinare acqua era il fabbricare dighe, in Burkina le facevano di terra, essendo questo paese una grande pianura con lievi pendenze (le plateau Moussi). La grande quantità di pioggia trovando del terreno duro per il tanto sole scorre via come sull’asfalto oltre a trasportare il poco humus depositato sui terreni, così da impoverirlo del poco concime depositato durante i mesi di secca, l’acqua se ne va senza irrigare il terreno. La grossa spinta del governo con l’aiuto di molte ONG come noi e il grande lavoro della popolazione che a periodi donava un giorno di lavoro volontario, ha iniziato un programma di sviluppo in tutta la nazione. Tutte le categorie a turno dai politici ai funzionari hanno contribuito ad ammucchiare terra per imbrigliare quel prezioso liquido. Anche 2 nostri amici si dedicavano a questi lavori, Alberto Longanesi, la vostra mamma lo chiamava nonno, seguiva la squadra del movimento terra con un bel gruppo di giovani Burkinabè, Franco Castellan, che voi conoscete, per la vostra mamma era come il fratello maggiore, lui e i ragazzi del suo gruppo seguivano il programma di dighette anti erosive, piccole barriere per frenare l’acqua facendola così penetrare nel terreno, in maniera di alimentare la falda acquifera per i pozzi d’acqua da bere. Io mi occupavo dell’officina-scuola di produzione pompe acqua e attrezzi per l’ agricoltura, pozzi acqua e istallazione fontane. Altri volontari seguivano la sanità e l’agricoltura. La LVIA di progetti di questo genere ne aveva in molti paesi africani: in Burkina Faso c’era una grande voglia di fare e anche noi ne eravamo contagiati: un giorno dalla radio che era l’unico trasmettitore di notizie ci è giunto un appello del presidente Thomas Sankarà che chiedeva agli stranieri se volevano partecipare ad una giornata di volontariato per la posa delle rotaie di una nuova ferrovia. Tre di noi hanno accettato l’invito, durante il lavoro abbiamo avuto la visita del presidente stesso che era accompagnato dal presidente del Gana. Alla vista di tanti lavoratori bianchi non è riuscito a trattenersi ed è venuto a trasportare con noi i binari, io l’ho avuto di fianco nel trasporto così detto a bilancino, 2 davanti e 2 dietro , gli si leggeva in viso la grande voglia di riscattare il suo popolo e l’Africa intera. Ma si sa i grandi uomini danno fastidio (questo l’hanno detto i giornali dell’epoca) sotto la pressione dei vecchi colonialisti con promesse di protezione e potere. Un giuda tra gli uomini di governo ha dato ordine ai suoi sgherri di massacrare questo grande sogno africano; ci sono tanti libri anche in italiano che testimoniano gli interessantissimi 4 anni di governo di Thomas Sankarà che è e resterà una leggenda specialmente per i giovani africani. Quando guardate il mondo sforzatevi di utilizzare l’occhio umano e non l’occhio etnologico: il primo vi farà vedere il vostro prossimo una persona come voi che avrete voglia di conoscere, il secondo vi farà vedere l’altro, il differente, non uno di voi, quello da scartare. Gli africani dicono “mbuntu” che vuole dire “io sono perché voi siete”, me lo ha insegnato Jean Leonard Tuadi ora, nel 2008, assessore ai problemi sociali giovanili al comune di Roma e speriamo di avere tanti figli della mamma Africa che ci portino l’esperienza dei saggi del loro continente.



Edited by carloceruti - 19/12/2009, 10:49
 
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